28.7.12

Sobre el Misterio (poema)


Andábame yo sin saberlo
y sin querer (o quizá sí)
por entre los fueros del Misterio
y queríame llegar a lo último
que sin entenderlo había arribádome:
yo a él y él a mí...

Interrogaciones o más bien interpelaciones.

“Mira, no sé... qué quieres que te diga”,
le decía.
“Tranquilo... Espera, ya verás...”,
me susurraba.

Y yo aguardaba sin saber qué
vendría a mis manos (o a mis pies).

Y con paciencia creadora,
que a su vez me venía
íbame entendiendo en el otro
que se hacía o convertía en
mismo Misterio... de Verdad.


                                N.H.
(Escrito el 22-2-1996, en Murcia)

(Para ver este poema diseñado por mi amiga Brisa, hacer clic aquí.)

27.7.12

Del mar y la montaña (poema)


Del mar y la montaña

De Roma a Gaeta
21.05.2002

Mares, montañas y ríos
nubes, vientos y aguas
verdes, rojos, amarillos…
la primavera estalla.

Claros, bosques, arroyos,
campos en flor, cosechados;
veloz, la natura pasa
de la llanura a los altos. 

Arbustos y matorrales,
vereda hacia la cima;
en el follaje cerrado
algunos rayos se filtran. 

En busca del ansiado mar
curveando entre los valles,
bruma, salitre y brisa,
vienen a nuestros umbrales.

                                         En Gaeta
 Azules, grises, plateados,
reflejos brillos de espejo
resplandores de bajamar
entre calma, barullo y sosiego. 

     

Vueltas artísticas, urbanas, 
idas y retornos, perdidos:
montes, rocas y arenas, playas,
van y vienen las olas, el mar.

                                               Fray Ignacio de la Palabra



 

(En este poema narro -poéticamente- los recuerdos del viaje de una jornada [ida y vuelta] desde Roma a la playa de Gaeta, donde estuvo apresado el P. Jerónimo Gracián; viaje que hicimos al terminar los éxámenes finales de teología en el Teresianum, en el curso 2001-2002; viaje en autocar con más de 30 frailes procedentes de medio mundo; ése era mi último verano romano...)

26.7.12

Commento della prima canzone del "Cantico Spirituale" di san Giovanni della Croce



San Giovanni della Croce, Cantico spirituale, canz. 1ª, strofa


«¿Adónde te escondiste,
Amado, y me dejaste con gemido?
Como el ciervo huiste
habiéndome herido;
salí tras ti clamando y eras ido.»


1. Struttura della strofa
a) Messa in scena: i personaggi

Per poter entrare nella dinamica della prima strofa del Cantico spirituale, è bene che ci ubichiamo proprio dentro di essa quale fossi un’opera teatrale, pensata per essere drammatizzata, messa in scena. In questo modo, troviamo due personaggi principali e unici: uno presente e un altro assente. Di quest’ultimo sappiamo il suo nome: “Amato” (Amado; in maiuscolo). Ciò ci aiuta per conoscere l’identità dell’altro personaggio: la sua coppia, l’altra metà, il suo complemento, l’“amante” (tenendo conto del binomio lui-Amato / lei-amante). Non è poco capire bene questi appellativi («queste verità», come direbbe Sta. Teresa: 6M 10,3); in essi si riassume l’azione (e la passione) delle prime dodici canzoni. “Amato” è participio passato del verbo “amare”, quindi significa passività; ma allo stesso tempo è riferito ad una persona, la quale riceve passivamente l’azione di quello stesso verbo. L’Amato è amato. (Ovvio, ma non deve essere dato per scontato.) Quando è cominciato ad essere amato? Per quale ragione? Ancora non lo sappiamo; neppure se lui è anche amante, se risponde all’amore ricevuto.

Da chi è amato? Da qualcuno che porta a termine quell’azione: l’“amante”. “Amante” è participio presente del verbo “amare” (l’opposto di ciò che appena abbiamo detto su “Amato”), e quindi denota attività; è, infatti, la forza motrice della strofa, l’unico personaggio presente in scena. Ci troviamo, dunque, dinanzi l’amante che dialoga con il suo amato assente. Ciò significherebbe un dialogo monologico: un mittente stabilisce una relazione comunicativa con un recettore ma non vi è risposta alcuna o feedback da parte di quest’ultimo. L’esempio tipico è quello del professore facendo lezione ai suoi alunni, oppure il conferenziere parlando dinanzi ad una folla dalla quale lui non aspetta un messaggio di risposta equivalente al suo di proposta. Ecco qui, però, la differenza tra l’esempio e la strofa che analizziamo: l’amante cerca, vuole e pretende la risposta del suo amato, ma non la trova; almeno, in questa strofa. Dovrà aspettare fino alla 13ª («Vuélvete, paloma»), dove entra in scena il partner, tanto desiderato. Così è completato il binomio amante-Amato. Queste sono le domande e le conclusioni che si possono trarre dalla strofa nel suo primo approccio.

Arrivati a questo momento, dopo aver capito chi appaiono in scena, dobbiamo rispondere ad un’altra questione: il quando. Diventa non solo importante, ma anche fondamentale per determinare con proprietà chi dei due è il vero personaggio attivo e chi quello passivo (essendo, allo stesso tempo, ambedue principali); è il quando dell’amore. Difatti, l’amante ci si mostra in azione nella strofa 1ª, ma chi provoca tutte le sue azioni è proprio l’Amato[1]. Da qui troviamo i ruoli scambiati: l’Amato è in realtà colui che precede con il suo amore l’amante, la quale sin dal principio è stata amata; e continuerà ad esserne. Per tanto cambiano le relazioni, il binomio da cui è partito il nostro discorso (lei-amante / lui-Amato): l’Amato è l’unico e il vero amante, e colei che chiamavamo “amante” in verità è l’amata. Nuovo binomio, allora: lui-Amato (amante) / lei-amata.

Per completare la nostra visione della scena, aggiungiamo un’annotazione importante, che sempre dovremo aver presente perché condiziona tutto il Cantico. Questi personaggi già descritti formano un binomio asimmetrico: l’Amato è maiuscolo; l’amata, minuscola. Ambedue si amano a vicenda, “sono amati” definitivamente. Ma… chi ha l’iniziativa? La risposta è facile se pensiamo che l’Amato per eccellenza è Gesù Cristo[2]; ma non sarà tanto chiaro se applichiamo i nomi ad altri esempi possibili (p.e., due innamorati, i quali si trovano, in genere, sullo stesso livello, con le stesse responsabilità, obblighi e diritti verso l’altro)[3].

b) Analisi sintattico-grammaticale

Capiamo i sintagmi di questa strofa dai verbi di cui sono composti (nuclei dei predicati) e finalmente, con uno sguardo più ampio, dalle azioni che presenta. I sintagmi che troviamo sono tre: un’interrogazione (vv. 1-2) composta da due enunciati (te escondiste, e me dejaste con gemido uniti dallo stesso soggetto — Amado — e preceduti dal “dove”: Adónde) più due enunciati affermativi (vv. 3-4: habiéndome herido huiste como el ciervo [dove si usa l’iperbato]; e v. 5: salí tras ti clamando y eras ido, di simile costruzione a quella dei primi due versetti).

Il numero dei sintagmi è raddoppiato da quello dei verbi; questi sono sei: tre semplici e tre composti o parafrasi. In ordine di apparizione: “nascondesti” (escondiste), “lasciasti” (dejaste), “fuggisti” (huiste), “avendomi ferito” (habiéndome herido), “uscii gridando” (salí clamando), “eri sparito” (eras ido). Tutti i verbi eccetto uno vanno riferiti all’Amato; soltanto uno si dice dell’amata: “uscii” (salí). Tempo dei verbi: quelli in passato remoto, da una parte, sono i seguenti: escondiste, dejaste, huiste (azioni dell’Amato); salí (azione dell’amata). Da tutti questi verbi noi non conosciamo concretamente né il tempo né lo spazio, coordinate nelle quali si sono sviluppate le azioni, e delle quali adesso si ricorda l’amata. Soltanto sappiamo che sono accaduti nel passato. Da un’altra parte rimangono i verbi in passato perfetto — haber herido, eras ido — e quindi le azioni che esprimono sono già finite, concluse (altrimenti sarebbe “imperfetto”; p.e.: estabas yéndote invece di eras ido).

Le azioni che capitano nella strofa, in ordine d’apparizione, sono queste:
-          nascondersi (v. 1)
-          lasciar con gemito – lasciare/ abbandonare (v. 2)
-          gemere (v. 2)
-          fuggire (v. 3)
-          ferire (v. 4)
-          uscire gridando/ uscire (v. 5)
-          gridare (v. 5)
-          andarsene (v. 5).

Vediamo, subito, che l’ultimo versetto (n. 5) — proprio quello dove si trova l’unico verbo predicato dell’amata — è il più carico d’azione nella strofa (registra tre forme verbali insieme).

– La dinamica della reciprocità (tu-io)

Possiamo presentare, tuttavia, le stesse azioni secondo l’ordine cronologico (continuando con la prospettiva iniziale dell’opera teatrale), ma dobbiamo prima riordinarle secondo la coordinata temporale. La storia che la strofa contiene, se la raccontiamo solo con i verbi, rimane dunque così:
  (tu)     1.° ferire (Amato Õ amata)
  (tu)     2.° nascondersi (Amato)
  (tu)     3.° lasciare con gemito (Amato Õ amata)
  (tu)     4°. fuggire (Amato)
  (io)      5.° uscire gridando (amata)
  (tu)     6.° andarsene [haberse ido] (Amato)

Infine, fissiamo il nostro sguardo sulle particole pronominali (“me” e “te”), come pure i soggetti, per riuscire a intendere meglio la suddetta dinamica di reciprocità tra l’Amato (tu) e l’amata (io)[4], la quale chiarisce in certo modo l’aspetto già analizzato dell’iniziativa nell’amore vicendevole ma asimmetrico tra i due personaggi principali. Per vedere più graficamente questo, riscriviamo la strofa originale rilevando le particole che a noi interessano:

     (tu)       ¿Adónde te escondiste,
     (io-tu)   Amado, y me dejaste con gemido?
     (tu)       Como el ciervo huiste
     (io-tu)   habiéndome [] herido;
     (io-tu)   salí [yo] tras ti clamando y [] eras ido.

Bisogna dire che l’io-tu nei versetti secondo e quarto contiene un io passivo; mentre che nel quinto e ultimo, l’io è attivo (salí tras ti clamando).

Per quanto riguarda ai nomi o sostantivi, n’appaiono pochi nella strofa, ma quelli che ci stanno hanno un denso significato. Adesso soltanto gli enumeriamo; in seguito ci soffermiamo su di loro per spiegare i simboli utilizzati dal Santo Padre all’inizio del suo poema. Sono i seguenti: “Amato” (Amado), “gemito” (gemido), “cervo” (ciervo). Aggiungiamo a questi anche “ferita” (herida), tratto dalla perifrasi verbale del v. 4: habiéndome herido.


2. La simbologia della strofa

                                                 «¿A dónde te escondiste,
                                                 Amado, y me dejaste con gemido?»

Questi due primi versetti ci danno l’immagine o piuttosto ci fanno sentire la voce di una donna innamorata, che grida: amore mio, mon amour... chiedendo il suo amato. Abbiamo qui l’immagine di una donna che ha la coscienza della propria afflizione.

Perché questa coscienza di solitudine?


Il poema comincia bruscamente, senza preparazione. Tuttavia, è evidente che c’era qualcosa prima: uno sguardo, un gesto, una parola d’amore… In pratica, una presenza/assenza di un’altra persona, un’azione che ha lasciato l’autore così ferito. Anche non è detto, non è chiaro perché l’amato ha abbandonato l’amata. È chiaro che il poema ci parla di un incontro e di una separazione di due innamorati. Possiamo scoprire che ci si parla d’amore, già maturo e preparato per il grande incontro. Questo “primo incontro” ha cambiato tanto l’amata a tal punto che lei è “pazza” per la presenza dell’amato. La vita di questa “donna” o “anima” è agitata.
Como el ciervo huiste

Vediamo che cosa rappresenta “il cervo” e perché esso simboleggia qui l’amato[5]. Tra i simboli di S. Giovanni della Croce provenienti dagli animali, il cervo ha relativa ampiezza e varie connotazioni. Possiamo trovare il cervo nella Sacra Scrittura: Sal 42,2-3; Cant 2,7; 2,9; 3,5. Lo troviamo anche nelle letture profane.

Il Santo Padre ha preso mano di un simbolo che è assai frequentato e ha una lunga tradizione. Il cervo appare come un sogno o simbolo molto positivo. Quest’animale è visto come “l’albero” di vita, vale a dire, fecondità, crescita. La caduta e rinascita annuale delle corna è simbolo del ciclo della natura, dell’incessante morire e divenire. Simboleggia un dinamismo di vita, un animale pieno di vitalità. Un altro simbolo quello della velocità e allo stesso tempo di paura.

A causa del suo gusto di solitudine è simbolo di malinconia. Il cervo simboleggia la prudenza e l’udito. È, dunque, molto difficile di avvicinarsi a lui senza essere udito. Nel nostro poema l’amato è simile al cervo che fugge. L’amata che ha pensato d’avere in possesso l’amato, si è ritrovata da sola. Questa fuga ci fa pensare anche all’immagine degli animali selvaggi che hanno bisogno di essere addomesticati: la volpe per esempio[6].

Habiéndome herido

La parola “ferita” (herida) è definita come un taglio o lacerazione della cute. Secondo lo Zingarelli ci sono diversi tipi di ferite: leggera, grave, mortale, causata da un’arma di fuoco, ferita superficiale; ma anche può essere un grave dolore fisico come pure un’offesa morale. Alla fine c’è anche la ferita d’amore.

Per i mistici, la ferita ha il significato di grazia (come dono e come stato). Il loro scopo è l’amore di Dio, quindi la ferita li fa accrescere quest’amore lacerante, nel quale vivono e per il quale muoiono. Proprio questo è dato all’anima per accelerare il cammino di perfezione verso la sua meta, e suscita in lei un desiderio di Dio immenso…

In ogni modo, qualsiasi sia la ferita, piccola o grande, essa coinvolge tutto il corpo. San Paolo ci ricorda che quando soffre un membro, tutti gli altri soffrono insieme. Questo ci porta all’immagine del “gemito” (con gemido), che è un gemito d’impazienza, per trovare la sua guarigione o piuttosto per trovare l’amato.


3. Proposta di lettura contemporanea[7]
Sull’eredità che ha ricevuto l’uomo d’oggi — sia moderno, sia postmoderno — si può dire qualche parola riassuntiva che, però, mancherà di altre anche importanti (non abbiamo la pretesa di essere totalizzanti, scriviamo queste righe soltanto a modo di approccio). Vediamo, dunque, quattro punti nodali sul pensiero e la realtà umani del nostro tempo. Sono i seguenti:

-- L’uomo vs. Dio. Fino al medioevo Dio era stato il punto di partenza e la meta d’arrivo di tutto il pensiero umano, delle scienze, e infine della ragione. Ora, dopo l’epoca moderna, l’uomo ha ricevuto un importante cambio di prospettiva: adesso guarda se stesso come centro d’interesse in tutti i livelli dell’essere e del fare umani. Dio è scomparso dallo schema di partenza (Dio–uomo–mondo; poi: uomo–mondo).

-- Principio di razionalità. Tutto passa dalla ragione ed è prodotto da essa; vi è una gran fiducia nelle capacità intellettuali umane, che porteranno a un grande sviluppo sociale (si pensi alla grandissima espansione urbana cominciata in Europa nel XVIII secolo).

-- L’aferramento del mondo. È la conquista della ragione per mezzo delle matematiche, la logica, le scienze naturali (in ambito politico, questo si fece più noto con la vittoria degli ideali liberalisti americani nella Rivoluzione francese; nell’economia si vide prima nella Rivoluzione industriale inglese).

-- Il progresso come parabola di un futuro continuamente promettente. Determinano la storia i grandi progetti e le collettività (p.e., nella storiografia marxista si parlerà di “lotta delle classi”). Vi si trova anche una ricerca continua per migliorare il futuro, sia per mezzo del perfezionamento scientifico (“il secolo dei lumi”), sia attraverso la difesa del solo individuo nei confronti dello stato (cf Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo).

Per alcuni, l’epoca della modernità è venuta meno e perfino caduta dopo l’esperienza dell’irrazionalità umana (soprattutto con le due guerre mondiali del XX secolo). Per altri, invece, questo fatto non fa altro che radicalizzare le posizioni e portare l’uomo all’estremo del modernismo.

Di tutta questa panorama, anche se possiamo ricavare moltissimi elementi che hanno molto giovato all’uomo del nostro tempo, non dobbiamo dimenticare il vuoto che, alla fine, lui sente nel più profondo del suo essere[8]. Da tutto ciò ricaviamo, in qualche modo, la ferita dell’uomo d’oggi, che ha acquisito diverse tonalità e significati, dipendendo degli ambiti umani dov’è apparsa. Per cui abbiamo molteplici ferite: politica (diffidenza), economica (abisso tra il Nord e il Sud), sociale (gli scioperi per acquistare migliori condizioni di lavoro; immigrazione e razzismo; insicurezza nelle grandi urbe; le condizioni della donna nella società e dei gruppi minoritari…), naturale (ecologica e ambientale; di rapporto con le cose: dipendenze varie e autodistruzione; con le persone nella comunicazione: ferite psicologiche e relazionali), religiosa (istituzionalizzazione, esteriorità del vissuto religioso senza approfondimento, incoerenze tra la parola proclamata e l’esistenza vissuta), temporale (non c’è un futuro promettente, ma un presente da vivere; quindi: carpe diem, un’esagerazione di Qo 9,7-10; cf 1Cor 15,32).

Per guarire questa molteplice ferita sanguinante, San Giovanni della Croce ci propone nella prima strofa del Cantico spirituale un unguento efficacissimo: la ferita d’amore. Alcune delle note più caratteristiche che questa ferita ci offre, entriamo nell’ambito dell’ossimoro, sono le seguenti:

-- Ripropone l’amore. Un rapporto personale “profondo”, trasparente e solidale; soprattutto, nei confronti di Dio (cf CB 1,1: «Rendendosi conto l’anima» della gratuità dell’amore di Dio…). È lui chi si prende cura (per primo) di noi con grande impegno fino alle ultime conseguenze, fino all’estremo della nostra libertà (coscienza). Nella strofa, infatti, la prima iniziativa parte dall’Amato: me dejaste con gemido / habiéndome herido.

-- La fiducia nell’Altro: anzitutto, bisogna fede nella potenza di Dio nella nostra vita, per guarirla dalle ferite sanguinanti. (Prima di fare qualsiasi miracolo, Gesù chiedeva al richiedente di guardarsi all’interno e vedere se aveva la fede sufficiente perché la sua richiesta fosse compiuta.) Ciò richiede da parte nostra dei grandi dossi d’autenticità. Nella strofa, la risposta dell’amata è la ricerca dell’Amato, causa della sua ferita, con tutte le sue forze: Adónde te escondiste / salí tras ti clamando.

-- Apertura e dinamicità: questa ferita è una morte (più grande o meno[9]) che però ci aprirà alla vita (quaggiù e quell’eterna). Se l’amata ha cominciato a cantare nella nostra strofa, lamentandosi dell’assenza dell’Amato, alla fine non si fermerà né si rinchiuderà nel suo dolore; anzi, si mette in azione ed esce (salí) in cerca del suo Amato, l’unico che la può guarire. Qui è presente anche la speranza cristiana con il suo “gemito” amoroso e impaziente ma pacifico, che, insieme alla ferita d’amore, spinge l’amata ad alzarsi e ad uscire da se per vivere in pienezza. Lei stessa si renderà conto dopo che non è tanto la sua ricerca come quella dell’Amato: «Bisogna sapere che, se l’anima cerca Dio, molto di più la cerca il suo Amato» (Fiamma 3,28; cf CB 22,1).

Una piccola aggiunta a queste parole: la figura del cervo li serve al Santo e ci aiuta a noi nei nostri atteggiamenti quotidiani verso l’altro, nel mistero d’amore che tutti siamo. Offriamo qualche esempio per l’uomo religioso d’oggi.

-- L’inaferrabilità di Dio. Dinanzi alle ferite nel rapporto umano (sia orizzontale, sia verticale), il cervo nei confronti con l’Amato e l’amata ci mostra una nuova sensibilità: “Non posso capire tutta l’altra persona, il mio partner”. Il cervo, come si è già detto, ha paura di essere visto da altri animali o persone davanti ai quali la sua vita potrebbe correre pericolo; perciò sfugge rapidamente quando qualche suono sospettoso arriva al suo udito. Quest’atteggiamento sarebbe da raccomandare ai nuovi “letrados[10] nella società e, concretamente, nella Chiesa, i quali vogliono sapere tutto e avere perfino Dio nei propri concetti e idee. Anche è da vivere nei soliti rapporti d’amore: l’altro sempre mi sfuggirà…[11]

-- Esigenza continua di radicalità, d’impegno, di donazione di sé. Il cervo è l’Amato; e l’Amato per eccellenza è Gesù Cristo, Dio e Signore nostro. Ora, non possiamo trattare né rivolgerci a Cristo se non lo troviamo vicino da noi, trattabile, accessibile. In altre parole, la nostra religione non sarà vera, se Cristo per noi non si è incarnato, non si è “umanato”. Questo messaggio va rivolto, innanzitutto, ai nuovi spirituali, i quali finiscono cercando più se stessi che Dio. A questi, andrebbe bene seguire l’esempio del cervo: invece che l’eccesso di protagonismo (che è espressione del vuoto interiore, della fiducia nell’esteriorità e infine della propria debolezza), potrebbero prendere la via del silenzio creativo e, cioè, del nascondimento solidale con i poveri, con quelli che nessuno vede benché esistano migliaia. Questo porta con se attuazioni concrete e delle scelte radicali: dinanzi a coloro che “urlano” nella Chiesa, essere il grido (di ricerca, d’aiuto) di chi non può gridare più. Proponiamo, infine, a coloro che non si fermano come il Samaritano (cf Lc 10,29-37), la pedagogia dell’Amato: la sua iniziativa viene sempre dall’amore infinito che ha Dio per ogni uomo, per ogni figlio suo. Se non ci fosse stata l’esperienza precedente di Dio con l’amata, costui non avrebbe intonato il Cantico spirituale… Ma, grazie a Dio, Lui ha parlato per primo con il suo amore, manifestato in Cristo Gesù. A lui sia la gloria nei secoli. Amen.


Conclusione. Sintesi della 1ª strofa

1. La ferita che siamo tutti. Tutti portiamo (e siamo) una ferita d’amore, che soltanto si chiuderà e si guarirà nell’amore.
2. Trasformazione dell’amore. L’amore dell’Amato produce nell’amata un importante cambio di stato: dalla passività all’attività. L’amata si rende conto che è appunto, amata, e perciò esce. Quest’azione fondamentale (v.5) ci annunzia che lei è stata trasformata dall’amore.
3. Il lato “negativo” dell’amore. L’amore viene presentato paradossalmente (non come di solito, vale a dire, come possessione) in due parole: assenza e povertà (termini taglianti, non sempre accettati). L’esempio di Gesù sulla croce è ben chiaro: in assenza di Dio Padre e nell’estrema povertà della croce (nudità, esposizione, morte).
4. Il “dove” dell’amore. Dove c’è l’amore? Così comincia la strofa e, con essa, tutto il poema del Cantico. Questa domanda può avere diverse risposte: l’amore si può trovare in tutti i luoghi e in nessuno. L’amore si trova in Dio, perché questo è il suo nome proprio (cf 1Gv 4, 8.16). “Dov’è carità e amore, lì c’è Dio”…

Bibliografia consultata
Bagnasco, Arnaldo, «Breve guida alla modernità radicale», in Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo. Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 9-14 (originale inglese: Cambridge 1990).
Chevalier, Jean – Alain Gheerbrant, Dictionnaire des symboles. Mythes, rêves, coutumes, gestes, formes, couleurs, nombres. Paris, Robert Lafont – Jupiter, 1987 (ed. orig.: 1969), pp. 195-198 (voce cerf).
Lurker, Manfred, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, ed. italiana a cura di Gianfranco Ravasi. Cinisello Balsamo, Paoline, 1990, pp. 49-50, 201-202 (voci cervo e sposa/ sposo),
Pikaza, Xavier, El “Cántico espiritual” de San Juan de la Cruz. Poesía. Biblia. Teología. Madrid, Paulinas, 1992.



[1] Cf l’analisi grammaticale: la dinamica della reciprocità (tu-io) nei cinque versetti.
[2] Dall’eternità, amando il Padre, Lui ci ha amato (cf S. Giovanni della Croce, Romanza 3 [Sulla creazione], vv. 87-98; Romanza 7, vv. 245-265; Gv 10,17); facendosi nella storia umana uno di tanti (cf Filp 2,6-7), passando tra noi «facendo del bene» (Atti 10,38), caricandosi per amore le nostre colpe (cf Is 53,11) e, infine, amandoci «fino all’estremo» (Gv 13,1) consegnando la sua vita al Padre per la nostra salvezza («Nessuno ha un amore più grande di chi dona la vita per i suoi amici»: Gv 15,13; cf 3,16; 5,23; 6,35.40; 10,10.18...).
[3] Su questo fatto ha riflettuto Javier Pikaza nella sua opera El “Cántico espiritual” de San Juan de la Cruz (Madrid 1992) pp. 177-179 y 181, dove afferma: «San Juan de la Cruz ha elaborado un precioso Cántico de amor interhumano; todas las estrofas, imágenes y versos del poema han de entenderse primero en ese plano como historia y encuentro de dos enamorados. Recordemos, sin embargo, que ese amor interhumano es mucho más que un erotismo vulgar; ese camino de aventura y experiencia, de unión iluminada, en la que viene a revelarse la verdad del ser humano, el valor del universo. Ese mismo amor interhumano es Cántico espiritual; revelación profunda del encuentro religioso, donde se vinculan para siempre Dios y el hombre. No es que unas estrofas o pasajes traten del amor humano y otras se refieran al amor divino. Todo, absolutamente todo, ha de entenderse en plano de amor interhumano; sólo así es reflejo y signo, es revelación y presencia del amor divino» (p. 181; il corsivo è dell’autore).
[4] Cf nota 1.
[5] Per S. Giovanni della Croce, il “cervo” è Dio e non l’anima come si potrebbe pensare. Si tratta di una fugga di Dio (per la sua sensibilità!) piuttosto che una fugga da Dio (per la sua grandezza). Cf. la collaborazione del prof. Cristóbal Cuevas in Simposio sobre San Juan de la Cruz, Ávila 1986, pp. 183-185.
[6] Cf Antoine de Saint-Exupéry, Le petit prince, Paris, Gallimard, cap. XXI.
[7] Non abbiamo voluto parlare di lettura “per l’uomo postmoderno”, giacchè questa terminologia socio-antropologica è abbasatanza discussa nell’attualità. Alcuni, infatti, preferiscono parlare di “modernità radicale”; cf Arnaldo Bagnasco, «Breve guida alla modernità radicale», in Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità, (Bologna 1994), pp. 9-14. Noi non ci soffermeremo in questi analisi socio-filosofici: li supponiamo. Ci è sembrato di sguardo più aperto parlare di “lettura contemporanea” per l’uomo (moglie e varone) del secolo XXI.
[8] Lo costatava il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes (cf nn. 4-10). L’inizio di questa costituzione sulla Chiesa è una profonda e umana visione d’insieme della realtà odierna: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie de le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS 1).
[9] La morte come negazione di se stesso per dare spazio ad un altro, all’Altro che è Dio, dentro di noi, nella nostra esistenza. Questa tematica è trattata e sviluppata dal Santo nel dittico Salita-Notte.
[10] Cf. Concordancias de Santa Teresa de Jesús, a cura di J. L. Astigarraga e A. Borrell, 2 voll., Roma, Teresianum, 2000 (voce “letrados”).
[11] «El amado se esconde en actitud que parece “huida”. Tampoco ahora sabemos por qué actúa así; dejando sufrir a la mujer abandonada; quizá quiere alejarse de ella para no cultivar su amor; quizá se esconde para que ella le busque mejor, en camino de creatividad más fuerte» (J. Pikaza, op. cit., p. 191). Più avanti, lo stesso autore afferma: «No se puede calcular el salto del ciervo en el campo. Tampoco puede calcularse la llegada del amado. Ha venido un momento, y luego se ha escondido, encendiendo la luz de la vida en los ojos del corazón de la pastora. Por eso ella ha saltado. Deja todo y empieza a preguntar, gritando entre los pastos y rebaños de su vida. Por vez primera se ha sentido yo, se ha descubierto persona» (ibid.). Si è ritrovata se stessa (io) proprio nella reciprocità con un Tu; cf l’incontro fugace di Gesù e Maria di Màgdala accanto alla tomba (Gv 20,14-18).

25.7.12

Arenilla espumosa (aforismos) (II)


Arenilla: autodidactas, trabajo, lectura


Ø Autodidactas:

# Los autodidactas suelen no ser buenos maestros. No han experimentado sistema o método alguno de enseñanza.





Ø Trabajo:

# El trabajo serena el alma, los pensamientos y pone a prueba las capacidades de uno mismo.
  



Ø Lectura:

# La lectura espabila los sentidos: fomenta y aumenta la imaginación, nos interpela e interioriza con la vida misma, conecta la mente al corazón y nos despierta nuestro “sexto”: la comunicación. (Escrito el 22-10-1995)



23.7.12

Arenilla espumosa (apotegmas)


Arenilla espumosa

(Fuente de la foto: Mirari Rodríguez.)
  

?     Tus huellas son el reflejo de tu vida; según ésta trascurra, quedarán aquéllas más o menos marcadas sobre la arena.
(Escrito en la Sierra de Cazorla, Jaén, el 23-9-1996.)

?       La mirada es reflejo del camino del alma. Cuanto más se ha adentrado el alma en la espesura, más profunda, limpia y sincera es la mirada.
(Escrito en la Úbeda, Jaén, el 10-1-1997.)

?       Quien no integra, a la postre, se desintegra.
(Escrito en Úbeda, Jaén, el 4-5-1997.)
 
?       Quien quiere quedarse con algo
no deja espacio al Todo
para morar en él del todo.
(Escrito en Úbeda, Jaén, el 28-6-1997.)



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(El título de aquí "Arenilla espumosa" está inspirado -en diminutivo humilde- en el título de la obra del poeta libanés Gibrán Jalil Gibrán: "Arena y espuma", que se puede descargar gratuitamente haciendo clic aquí.) (Los apotegmas son dichos pequeños, breves, concisos, como flechas, que en pocas palabras aciertan a decir bastante más -en cantidad y en calidad-; son famosos los "Apotegmas de los Padres del Desierto", publicados en varias editoriales cristianas [Desclée de Brouwer, Bilbao; Monte Carmelo, Burgos; Sígueme, Salamanca] y laicas [José J. de Olañeta, en Palma de Mallorca].)


22.7.12

[Señor, tu piedad] (poema bilingüe hispano-italiano)


[Señor, tu piedad]


Señor, tu piedad
me ayuda a vivir
con profundidad
la vida,
cada instante,
a mirar
con tus ojos
el estar y el hacer
de mis hermanos,
el mundo, el entorno,
todo y, a la vez,
muy poca cosa,
porque tan poco o menos
queda de mí
cuando te olvido, Señor.

Señor, tu piedad
me conforta, me confirma
en tu amistad.
La piedad de tu Espíritu
me acerca, me une y me invita
a la entrega total
a ti, a tu Amor.
Amén.

[Escrito en Wadowice, Polonia; lunes, 6-7-98 (10.30 a.m.)]




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[Signore, la tua pietà]

Signore, la tua pietà
mi aiuta a vivere
con profondità
la vita,
ogni istante,
a guardare
con i tuoi occhi
lo stare e il fare
dei miei fratelli,
il mondo, l’intorno,
tutto e al contempo
quasi niente
perché tanto poco o meno
rimane di me
quando dimentico te, Signore.

Signore, la tua pietà
mi conforta, mi conferma
nella tua amicizia.
La pietà del tuo Spirito
mi avvicina, mi unisce e m’invita
alla consegna totale
a te, al tuo Amore.
Amen.

 [Scritto a Wadowice, Polonia; lunedì, 6-7-98 (10.30 am)]